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Facchinetti: l'inizio di una carriera tra gavetta, chilometri e furgoni - Martedì 22.11.2022

Roby Facchinetti - Foto di Cristian Dossena

Lo scorso 05 ottobre la puntata della trasmissione "Voci nella notte", in onda sull'emittente romana Radio RTR 99, ha avuto come ospite in diretta Roby Facchinetti. Il compositore bergamasco, rispondendo alle domande del conduttore Fabio Martini e del giornalista sportivo Michele Plastino, ha permesso agli ascoltatori di scoprire qualcosa di più dei suoi primi passi nel mondo musicale.

Si inventava giorno dopo giorno di fare questo mestiere. Roby Facchinetti

Fabio Martini: «Il tuo inizio come è stato?».
Roby Facchinetti: «Per tutti i complessi ed i musicisti, per quelli che tentavano di suonare, [...] era tutto un mondo che non si conosceva. Oggi chi decide di formare una band o un complesso ha tutta un'organizzazione che gli prepara tutto: dal manager, agli uffici, i service. All'epoca non era così: si inventava giorno dopo giorno di fare questo mestiere. Ci si metteva insieme, i primi gruppi li ho formati con amici di Bergamo quando avevo 15 anni: si andava a suonare soprattutto la domenica pomeriggio ed il sabato sera in alcuni locali, erano le balere [...]. Al massimo si prendeva 1.500 lire a servizio e si sognava di fare questo mestiere, che qualcosa potesse accadere. Nel frattempo si sentiva già quest'aria che arrivava un po' dall'America, un po' dall'Inghilterra, di questi gruppi che si formavano, per cui c'era un fermento che stava aumentando [...]. Da Bergamo ci siamo spostati prima a Riccione, sempre con I Monelli, il primo complesso importante che mi ha "traghettato" a fare questo mestiere. Siamo partiti quasi per gioco col fare "La Stalla" di Riccione; da "La Stalla" di Riccione siamo passati poi a Trieste, poi a Genova e poi a Milano e lì ci fu un ulteriore cambiamento. Arrivammo poi al famoso "Sporting Club" di Bologna e lì ho conosciuto i Pooh che mi chiesero appunto di entrare con loro».

Lo "Sporting Club" di Bologna. Clicca per ingrandire.

Suonavi continuamente davanti al pubblico, imparavi a fare questo mestiere, imparavi a suonare. Imparavi a capire quale era la tua strada da seguire. Roby Facchinetti

Roby Facchinetti: «Che cosa accadeva una volta entrato nei Pooh? Loro avevano appena appena fatto il primo 45 giri e noi dovevamo in qualche modo cercare di... "sognare" una strada. È vero che all'epoca c'erano tante, tante, tante possibilità: bastava che tu suonassi un po' la chitarra, un po' le tastiere, un po' la batteria e magari avevi anche delle idee, anche confuse, che comunque ti davano la possibilità di incidere, come l'hanno data anche ai Pooh di incidere il primo disco. Però il problema era che dovevamo lottare con migliaia, dico migliaia (e non sto esagerando) di gruppi, di complessi che ogni giorno si formavano e questo era un grande problema. Devo dire che noi siamo stati abbastanza fortunati, perché quasi subito siamo riusciti a entrare, grazie agli impresari che c'erano all'epoca, nel grande giro dei grandi locali. Infatti a Roma i Pooh fecero il "Piper", poi il "Piper" diventò il "Titan", poi il "Vum Vum", che era un locale molto, molto importante. La cosa bellissima di quegli anni [...] è che si suonava per un mese intero in questi posti, tranne il lunedì ed era veramente una scuola impagabile: tu suonavi tutte le sere davanti al pubblico [...]. Sto parlando degli anni Sessanta: la musica cambiò completamente il mondo e credetemi, in questi locali ogni sera c'erano tre, quattro, cinque mila persone. Tu suonavi continuamente davanti al pubblico, imparavi a fare questo mestiere, imparavi a suonare. Imparavi a capire quale era la tua strada da seguire, quali erano le cose che funzionavano, che non funzionavano... Insomma, facevi la famosa "gavetta" che purtroppo nella realtà di oggi non esiste più. Oggi addirittura se vinci un concorso ti ritrovi da un giorno all'altro anche primo in classifica e fino alla settimana prima magari facevi anche un altro lavoro».

I Pooh nella formazione del 1966. Da sinistra: Mauro Bertoli, Mario Goretti, Roby Facchinetti, Riccardo Fogli, Valerio Negrini. Clicca per ingrandire.

Fabio Martini: «È verissimo, poi c'erano pure i pomeriggi. Suonavate anche di pomeriggio».
Roby Facchinetti: «Al "Titan" di Massimo Bernardi passammo un paio d'anni: suonammo due, tre volte all'anno per un mese di fila. Era un locale veramente molto, molto importante [...]. Quando ripenso a quegli anni ho anche con un po' di nostalgia perché, come dicevo prima, noi veramente sognavamo. Facevamo delle cose che, se le penso ora, mi chiedo come abbiamo fatto. Perché attenzione: all'epoca si girava col famoso furgoncino che era casa nostra, dove dentro c'erano gli strumenti, si viaggiava, si dormiva [...]. Non è che avevamo una particolare cura: non si metteva l'acqua, non si metteva l'olio, mettevamo giusto la benzina perché altrimenti ci si fermava. Questi famosi furgoni ogni due per tre si bloccavano, si fermavano. Noi, di queste esperienze, ne abbiamo avute veramente tantissime... In mezzo all'autostrada a Ferragosto, con gli strumenti, col caldo, col furgone col motore fuso. L'autostrada finiva a Battipaglia, poi ti buttavano fuori e per arrivare a Reggio Calabria o in Sicilia erano veramente decine di ore. Dopo dieci ore che viaggiavi, che non sapevi assolutamente dov'eri, appariva un cartello con scritto tipo "Reggio Calabria 250 km" [...]. Per noi era normalità, per noi questi viaggi, queste cose pazzesche, non dormire, viaggiare».

I Pooh ed il loro furgone al Cantagiro del 1969. Da sinistra Riccardo Fogli, Dodi Battaglia, al volante Roby Facchinetti. Clicca per ingrandire.

Il musicista ha un grande pregio, anche perché è la prima cosa che impara: ascoltare. Roby Facchinetti

Michele Plastino: «Quanto è difficile, al di là dell'amicizia, saper far gruppo anche in un complesso?».
Roby Facchinetti: «È molto, molto, molto difficile. Con i Pooh è stata una scuola innanzitutto umana e io ringrazio i Pooh ogni giorno per quello che mi hanno dato, per quello che hanno saputo regalarmi, per tutto quello che ho imparato sia musicalmente, che umanamente [...]. Se non ci fosse stato il lato umano, non potevamo veramente rimanere insieme così tanto tempo. Non si può fare della musica se non c'è rispetto, se non c'è affetto, se non c'è considerazione, se non si sa ascoltare. Perché il musicista ha un grande pregio, anche perché è la prima cosa che impara, ascoltare: se non ascolta non può suonare ad altri, fare gruppo. Ma bisogna imparare ad ascoltare, rispettare chi hai davanti, cercare di capire. Noi siamo stati bravissimi a perfezionare tutta una serie di alchimie. Una di queste che ho sempre ritenuto molto, molto, molto importante: l'idea di uno diventava poi l'idea di tutti. Tu arrivavi alla mattina e dicevi: "Ragazzi, ho una idea incredibile!". Poi raccontavi la tua idea, la mettevi sul tavolo, quella tua idea non era più tua, era di tutti. Se tu non hai l'intelligenza, la sensibilità di capire questo, devi fare il solista. Però il grande vantaggio del gruppo è quello che poi abbiamo sempre raccontato: da soli noi possiamo essere il 25%; insieme noi quattro non ervamo il 100%, eravamo il 1000%. Questa è la forza del gruppo e se non capisci questo allora diventa impossibile la convivenza».

Michele Plastino: «Nel gruppo [...] il batterista è sempre quello messo un po' in disparte, [...] è sempre quello che sta dietro. Stefano invece era un co-protagonista importante dei Pooh. Voi a un certo punto della vostra carriera andavate a registrare e a montare in uno studio anche televisivo oltre che audio nei pressi di Monteverde, a Roma e io nella sala accanto registravo le prime telecronache di calcio inglese. E lì ho conosciuto Stefano. I Pooh avevano questa grande eccezione: [...] il batterista era un co-protagonista assoluto, non quello messo un po' in disparte, vero Roby?».
Roby Facchinetti: «Assolutamente. Devo dire che è sempre stata la nostra forza: ognuno di noi siè siamo sempre sentito comunque, nel proprio ruolo, un protagonista. Anche questo fu una cosa importante, perché ognuno di noi si sentiva importante nel gruppo e ognuno di noi cercava di portare le proprie idee che più gli assomigliavano. Stefano era veramente un vulcano, lui la parola "impossibile" non ce l'aveva nel suo vocabolario [...]. Si metteva lì e incominciava a esplodere tutte le sue idee e alla fine si realizzava, perché era veramente una forza della natura in tutti i sensi. Come dicevi tu è vero che il batterista stava sempre dietro, ma lui devo dire che aveva un set di batterie che ci voleva quasi un TIR per trasportarle. E lui, attenzione, lui le suonava tutte! I gong, i timpani, la doppia cassa, i piatti... tutto quello che si poteva in qualche modo suonare attraverso delle bacchette, lui riusciva assolutamente a farlo. Era un vero fenomeno, un grande batterista, molto personale, perché anche questo è molto importante: lui aveva un "tocco", aveva le sue rullate tipiche ed era riconoscibile in mezzo a mille. E la riconoscibilità, per un musicista, è importantissima».

La versione integrale del podcast della trasmissione "Voci nella notte" andata in onda il 05.10.2022 è disponibile sul sito www.rtr99.it.

Autore - Michaela Sangiorgi